Ciascuno di noi aspira a coltivare la pace nei propri rapporti, ma spesso ciò si rivela complicato. Un conflitto, una controversia nascono tra due o più persone in ragione del fatto che esse possono non andare esenti da pregiudizi ed inoltre perché spesso si assiste ad una comunicazione imperfetta dei concetti sebbene venga utilizzato lo stesso linguaggio. 

Per superare almeno il pregiudizio – ossia la rappresentazione di idee ingiustificatamente negative o anche positive nei confronti del nostro prossimo – si sono perseguite nel tempo diverse strategie[1], ma quella che pare aver dato i migliori risultati è il semplice contatto, perché esso dà modo agli uomini di conoscersi e la conoscenza è medico di tanti mali.

Perché la comunicazione possa raggiungere lo scopo che ognuno si prefigge, anche il più fugace contatto richiede perlomeno il perseguimento di alcune semplici regole, ma vi sono occasioni in cui le regole che si adottano non portano ad un dialogo che possa essere proficuo e quindi rimane il problema della comunicazione.

In tal caso potrebbe essere opportuno rivolgersi ad un soggetto terzo, esperto nelle dinamiche dei conflitti, perché faciliti il dialogo ovvero lo ripristini.

Facilitare il dialogo non significa di certo imporre una scelta. 

L’essere umano sopporta, infatti, le imposizioni solo quando non ne può fare a meno. 

Non è un caso dunque che sin dai tempi antichi in presenza di una controversia che non riuscissero a risolvere vis-à-vis, gli uomini pensassero in primo luogo ad un amichevole componimento tramite amici, vicini e parenti e solo in seconda battuta ad un arbitrato o ad un giudizio. 

Nel mondo greco e romano a maggior ragione gli accomodamenti tra consanguinei avvenivano più che altro attraverso conciliazioni e arbitrati[2] che spesso erano effettuati appunto con l’ausilio di vicini e familiari.

Vista la delicatezza delle questioni lo stesso Digesto giustinianeo mantenne il principio per cui le cause tra i parenti dovessero ottenere l’autorizzazione da parte del praetor[3].

In conformità a questa norma cautelativa col passare dei secoli si crearono per i più stretti congiunti dei tribunali di famiglia le cui attribuzioni sono assai ben esplicitate ad esempio dall’art. 12 del decreto dell’Assemblea costituente francese 16-24 agosto 1790: “Elevandosi qualche contestazione tra marito e moglie, padre e figli, avo e nipoti, fratelli e sorelle, nipoti e zii, o altri congiunti negli stessi gradi, come anche tra i pupilli ed i loro tutori per affari relativi alla tutela, le parti dovranno eleggersi parenti, o in difetto amici e vicini, per arbitri, davanti ai quali i contendenti esporranno le loro differenze, e che, dopo averli sentiti ed aver preso le informazioni necessarie renderanno una decisione motivata”.[4] 

Di un rapporto tra conciliazione, seppure non nel senso da noi concepito, e la materia delle successioni troviamo accenno sempre nella codificazione giustinianea con riferimento all’istituto della diseredazione dell’erede necessario: colui che diseredava un discendente od un ascendente poteva, in altre parole, riconciliarsi, ma ciò aveva solo una valenza etica, serviva cioè solo a manifestare il perdono in relazione all’ingratitudine ricevuta; dunque la diseredazione rimaneva sino a nuovo testamento[5].

Presso i Longobardi che in genere non conoscevano se non l’accomodamento pecuniario e di solito gli preferivano di gran lunga la faida[6] e quindi la decisione delle armi[7], gli affari più intimi delle famiglie, quando approdavano al processo e non erano giudicati dal tribunale di famiglia[8], erano però sottratti al duello giudiziario e si regolavano di solito per giuramento dei sacramentali[9].

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