Il nostro codice penale distingue, verrebbe da dire, tra reato giustificato e reato “giusto”. 

Il primo è il reato commesso in presenza di una causa di non punibilità, ovvero di quelle circostanze che la dottrina e la giurisprudenza definiscono più propriamente come scriminanti o cause, per l’appunto, di giustificazione. 

Chi commette un omicidio per legittima difesa, ad esempio, lo fa per estrema necessità personale (per salvarsi a sua volta “la pelle”), e quindi non può subire alcuna sanzione penale per il suo gesto estremo. 

Non contano i motivi per cui ha commesso il reato, conta soltanto il fatto che è stato costretto a commettere il reato, e che non poteva reagire all’aggressione altrui se non commettendo quel determinato reato. 

Fuori da queste ipotesi, il reato non dovrebbe mai considerarsi, almeno in astratto, giustificato o giusto, anche perché è il legislatore che ha preventivamente stabilito che quel determinato tipo di condotta offende un bene di interesse rilevante per la collettività o per l’individuo. 

Purtuttavia, il nostro codice penale ha inserito, tra le circostanze attenuanti comuni – e cioè tra quelle circostanze contestuali al fatto, la cui esistenza attenua la gravità di ogni reato e conseguentemente può ridurre la sanzione penale – la seguente fattispecie: “l’avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale”.  

Cosa significa commettere un reato per motivi per così dire “nobili”?

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