Bisognerebbe scrivere una storia dei sentimenti. Capire quando l’amore è diventato amore, quando l’odio è diventato odio, quando la paura è diventata paura. Misurare lo scostamento di ciascun brivido dalla sua prima manifestazione alla più recente, spiegarne l’evoluzione, indagarne la funzione. Scopriremmo così che l’arsenale sentimentale serve la causa della nostra vita tanto quanto la ragione, e di concerto con essa modula le scelte politiche, indirizza le decisioni economiche, guida la mano dell’artista. Dinanzi a un prospetto simile, il nostro maggiore sgomento sarebbe, io credo, constatare quanto il ruolo dei sentimenti nella nostra vita si sia assottigliato, fin quasi a scomparire.

Suona paradossale in un’epoca come la nostra, in cui la competenza è guardata con sospetto, i fatti sono torcibili all’infinito e paiono trionfare pulsioni irrazionalistiche ai limiti dell’autolesionismo. E’, in realtà, la logica conseguenza. Le emozioni non sottraggono spazio solo alla ragione, ma anche ai sentimenti.

Il sentimento ha una dimensione oggettiva e constativa. Presuppone stratificazione dell’esperienza, riflessione, consapevolezza, dunque è, in un certo senso, razionale. Soprattutto, è improduttivo. L’emozione, invece, è soggettiva e performativa. Contrariamente al sentimento, essa sorge in relazione ad uno stimolo esterno e svanisce quando questo scompare. È labile, ma anche potente, mobilitante. In una società ossessionata dalla prestazione, dall’autoaffermazione, il movente esistenziale è la ricerca continua della scarica, lo svuotamento temporalesco delle viscere fiaccate dalla sovraccumulazione. Il neoliberismo se ne approfitta e mette al guinzaglio le emozioni, le adopera come mezzo di produzione, non di oggetti ma di mancanze.

Il risultato è un impoverimento del capitale umano sul piano individuale e sociale. Certo, abbiamo ancora familiarità con l’amore, la paura, l’odio, la vergogna, ma li pratichiamo sempre più come risposte immediate, fugaci, ad un’emergenza, che non come occasioni di contatto stabile e duraturo con il mondo. In alcuni casi l’assenza si nota più che in altri. La vergogna, ad esempio. Dinanzi ad essa proviamo lo stesso fastidio che proviamo dinanzi ad una mosca: a cosa serve? Perché non scompare? Eppure la vergogna la sua funzione ce l’ha. Non è solo il rossore, il segnale epidermico che smaschera il colpevole colto in flagrante. È anche un ammonimento. Col supporto della memoria, e a patto che si abbia occasione di sentirla risuonare in sé, di esplorarla al di fuori dell’insorgenza spontanea, la vergogna consente l’esercizio del pudore. Come un campanello, suona prima che la nostra azione varchi la linea della sguaiatezza, del cinismo, della violenza.

La compassione è un altro sentimento desueto. L’espressione viene dal latino cum patior, significa “soffro con”. E’, la compassione, ciò che trasforma l’Altro in destinatario di sym patheiaindipendentemente dalle circostanze esistenziali (razza, provenienza geografica, reddito). La gazzarra indegna che si scatena non appena si avvicina alle nostre coste un barcone o una nave di ong dimostra che il suo esercizio è ormai sterile. Discutiamo se aiutare o no esseri umani in difficoltà, e questo è già sufficiente a misurare il polso della nostra umanità.

Così la nostra epoca mostra la propria potenza. La tecnica ci ha liberato dalla goffaggine del “sentimento creaturale”, per dirla con Otto Rank, e quel liberalismo sul quale oggi sputiamo, mal diretto da élite pavide, ha trasformato ogni rivendicazione, anche insensata, in diritto. Ne approfitta una nuova classe dirigente povera di morale, di idee, di immaginazione, ma abilissima a sventolare la muleta della rivalsa e a trasformare l’emozione in consenso.

La potenza di cui siamo capaci, dunque, rimane inevasa. Per ingannare il tempo in attesa di un cambiamento che non arriverà, ci guardiamo l’ombelico, convinti che esso sia il centro dell’universo. Rifiutiamo di assumere grandi compiti individuali o collettivi, e se ci poniamo alla testa di qualche impresa la trasformiamo in un’occasione di sfoggio narcisistico, con il cinismo a tenere bordone. Il rischio del fallimento è attutito dal rumore di fondo, la proliferazione incontrollata della chiacchiera. La dabbenaggine ha mercato perché, nella confusione, è facile gabellarla per purezza. Lo sappiamo bene, anche quelli che tifano per il caudillo in completo blu che sventola il Franco Cfa in diretta tv, o il ministro che, davanti ai suoi follower, s’appunta come una medaglia al petto una richiesta di rinvio a giudizio. E però facciamo finta di non sapere. Un po’ come in quella scena di Palombella rossa, con il pubblico che assiste per l’ennesima volta al Dottor Zivago disperandosi quando il copione raggiunge il suo tragico epilogo.

La differenza tra la fiction e la realtà è la possibilità di instaurare con quest’ultima un dialogo, di interrogarla e di ottenerne una risposta non immaginaria, e da lì partire per cambiarla. Ma qui nessuno chiede a nessun altro di rendere mai conto d’alcunché. Abbiamo introiettato l’idea che la sfera pubblica sia lo sfogatoio delle nostre emozioni, figuriamoci se pretendiamo, finanche dai politici, lo sforzo del contenimento, l’attenzione ai fatti e un’interpretazione non ideologica di essi. Stringiamo le spalle, oppure scivoliamo nel sentimentalismo, che non ha nulla a che vedere con i sentimenti, piuttosto con la loro sceneggiata patetica, sterile. 

In un film di Antonioni, uno dei due personaggi dice all’altro: “Tu dici ‘cosa devo guardare’. Io dico ‘come devo vivere’. È la stessa cosa”. Nell’epoca in cui le emozioni prevalgono sui sentimenti, cos’è che guardiamo quando guardiamo? Noi stessi. La camera è sempre fissa su di noi, in una perenne diretta Facebook. Il controcampo è come il cambiamento, non arriva mai. È così che si vive. Male

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