“La ricerca è scarsamente remunerativa”.

Nulla da eccepire: il privato, legittimamente – anche se spesso infischiandosene di quella responsabilità sociale d’impresa che magari sbandiera sul proprio sito – analizza e valuta la redditività dei propri investimenti. È per questo, per riequilibrare queste “storture del mercato”, che la ricerca pubblica di base ha un ruolo insostituibile. Ed è perciò che, all’indomani di questo annuncio, il celebre genetista, Edoardo Boncinelli, ha dichiarato: “Ben vengano le ricerche dell’industria privata. Ma queste sono basate sul profitto, e liberissime di non fare più una ricerca, se non ne dà. La grande ricerca deve essere di base, e statale”.

C’è un altro aspetto per cui in alcuni settori la ricerca di base non può non avere una forte impronta pubblica: il fatto che essa spesso è “in blind”, come dicono gli esperti. Cioè procede alla cieca, senza garanzie che la strada percorsa sia quella giusta; e anzi può anche – e spesso deve – fallire prima di trovare la via giusta. In un’ottica di sistema, la ricerca pubblica di base, spiega Daniela Palma, economista dell’Enea, “trasferisce conoscenza verso il privato e naturalmente avviene anche l’inverso: domande dal ‘privato’ che sollecitano la ricerca pubblica. Si innesca così un circolo virtuoso in cui le due ‘parti’ sono interdipendenti”.

Ed è qui che saltano agli occhi subito le distanze tra i diversi paesi, con l’Italia che come al solito non sta messa bene: siamo infatti molto lontani dall’Europa a 28, in cui la media degli investimenti in ricerca e sviluppo è quasi al 2 per cento del Pil, mentre noi siamo fermi all’1,34 per cento. Le differenze sono ancora più ampie con alcuni paesi: la Germania è al 3 per cento e anche la Francia supera il 2. In termini assoluti si tratta di cifre ragguardevoli: noi investiamo circa 21 miliardi di euro, la Germania quasi 90. Se poi enucleiamo il dato della ricerca pubblica, c’è da star ancor meno tranquilli: la Germania investe l’1 per cento del Pil, noi la metà. Il risultato di queste (non) scelte in termini d’innovazione si può vedere, ad esempio, nei dati che riguardano i brevetti. Nel 2016 in Italia ne sono stati registrati 4.166, 10.486 in Francia e addirittura 25.086 in Germania: ben il sestuplo.

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