INTELLIGENZA EMOTIVA ED EMPATIA GIURIDICA

La descrizione di lesioni cerebrali corrispondenti a modificazioni caratteriali dovute a fattori sia interni che esterni, ha fornito l’occasione per tracciare una prima linea di collegamento tra facoltà intellettive e attività cerebrali tra i soggetti sottoposti a stimolazioni esterne e fattori sociali.

Con l’utilizzo di una strumentazione nuova, in grado di rilevare non più post mortem, ma ex vivo, si è potuto indagare non solo la struttura, ma anche il funzionamento del sistema nervoso.Oggi PET e fMRI sono in grado di dare un istantanea sull’attivazione di determinate aree cerebrali, alle quali sono correlate specifiche esecuzioni di comportamenti richieste all’ esaminando. In tal modo, specialmente negli ultimi due decenni si è assistito al proliferare di opere divulgative neuroscientifiche attraverso le quali gli autori cercano di inserire scoperte in categorie filosofiche di origine secolare. Con il riferimento al termine “rivoluzione neuroscientifica”, viene indicata la possibilità, intravista da diversi studiosi, di radicare un nuovo sapere intorno all’uomo e alle sue possibilità.

Ramachandran (2004) si riferisce alla neuroscienza come “la nuova filosofia” il cui fine è quello di dimostrare, oltre ai fondamenti biologici delle manifestazioni psicotiche, l’esistenza o l’illusorietà della volontà cosciente e del libero arbitrio. L’autore mette in luce come lo studio dei disturbi bizzarri e l’interrogarsi con le giuste domande possa portare oggi i neuroscienziati a rispondere ad interrogativi sino a ieri solo filosofici che l’uomo si è posto dall’alba della storia quali per esempio : che cos’è il libero arbitrio? Chi siamo noi? Perchè arrossiamo?La tecnica ha concesso all’uomo di decidere non solo sull’inizio e sulla fine della vita, ma anche sulla qualità dell’esistenza e sulle modalità in cui è meglio che essa si esprima. Questo scegliere secondo finalità e scopi diversi implica la necessità di assumere la responsabilità delle proprie decisioni.

Nella conferenza di San Francisco Neuroethics: Mapping the Field, tenutasi il 13-14 giugno 2002, sono state affrontate tutte le preoccupazioni legate alle possibilità di intervento sul cervello, che non si limiterebbe più alla sola cura delle malattie mentali di origine biologica, ma si estenderebbe anche ai disturbi che in passato erano considerati più prettamente psicologici.

Questa nuova disciplina fornirebbe anche la capacità di manipolare il cervello sano con evidenti ripercussioni sulla configurazione dei comportamenti del soggetto ed in special modo sui Minori, soggetti facilmente impressionabili, o viceversa soggetti facilmente impressionabili con poche difese Sociali e di Relazione.

Da qui la definizione di neuroetica che, come ricorda Boella (2008), coincide con lo studio delle questioni etiche, giuridiche e sociali che sorgono quando le scoperte scientifiche sul cervello vengono portate nella pratica medica, nelle interpretazioni giuridiche e nella politica di tipo sanitario e sociale . Tali scoperte si stanno realizzando nel campo della genetica, del brain imaging e nella diagnosi delle malattie. Come messo in luce da Santosuosso (2009) la neuroetica ha il compito di prendere in esame come le categorie professionali dei medici, degli avvocati, dei giudici e dei politi, così come il pubblico, si occupano di questi temi.

Secondo Lavazza e Sartori (2011) la neuroetica dovrebbe occuparsi delle situazioni in cui l’intervento delle neuroscienze provoca un ripensamento dei contenuti delle categorie che per secoli hanno contribuito a definire l’uomo e la sua natura di persona.

Si assiste dunque, come sottolineano gli autori, ad un ribaltamento di fronte, per cui il punto focale di questa nuova disciplina non sarebbe tanto ciò che le neuroscienze possono fare, ma cosa esse ci consentono di sapere circa la nostra natura di esseri umani, con riguardo al periodo evolutivo.

La neuroetica verrebbe in questo modo investita della necessità di riformulare un’antropologia dell’umano alla luce delle scoperte relative ai fondamenti neurali e chimici del mentale che potrebbe, però, trovare forti opposizioni in alcune posizioni radicate saldamente nel pensiero non solo filosofico, ma anche sociale, culturale e religioso (Lavazza e Sartori, 2011).

Senonché, risulta esservi una scarsa e difficile collaborazione tra neuroscienze e filosofia soprattutto se confrontata ai rapporti riscontrabili tra neuroscienze e psicologia/ psichiatria. Il terreno di maggiore scontro è quello relativo alla reificazione della mente e del passaggio dal dualismo cartesiano, dove il corpo è un marchingegno dotato di spirito al monismo materialistico, dove la mente, in quanto espressione del trascendente, non è empiricamente verificabile se non quando è ridotta alla complessità neuronale che struttura il cerebrale.

Il progresso delle neuroscienze sta cambiando il modo nel quale mente, comportamento e natura umana sono concepiti; già nell’ ottocento era noto che lesioni più o meno circoscritte di

determinate aree della corteccia cerebrale possono causare la compromissione di certe funzioni cognitive e la perdita della capacità di modulare il proprio comportamento (Musumeci, 2012). Oggi è infatti possibile studiare i circuiti nervosi cerebrali implicati non solo in processi cognitivi quali percezione, attenzione, memoria e linguaggio, ma anche in funzioni mentali più complesse ed elusive come l’esperienza emotiva, il controllo degli impulsi, il giudizio morale. Grazie all’avanzamento delle scoperte inerenti la decodifica del del genoma umano, si inizia inoltre a comprendere il ruolo che patrimonio genetico svolge nel determinare non soltanto i tratti fisici, ma anche le caratteristiche della personalità e il rischio di sviluppare patologie del corpo e della mente (Bianchi et al., 2009). Sperimentazioni attuali mettono in evidenza l’esistenza di circuiti cerebrali specifici deputati al controllo e all’inibizione degli impulsi aggressivi, circuiti che coinvolgono in maniera cruciale regioni site nei lobi frontali. Sono state esaminate le differenze morfologiche e funzionali tra il cervello di individui normali e criminali ed è emersa la presenza di determinati alleli di geni, implicati nel metabolismo dei neurotrasmettitori, che influenzano maggiormente lo sviluppo di comportamenti aggressivi, antisociali e criminali.

Pietrini (2003) evidenzia il fatto che se l’aggressività può essere riconducibile a precisi circuiti nervosi è forse verosimile che una qualsiasi alterazione di questi , sia essa di natura congenita o acquisita, morfologica o funzionale, possa portare ad un comportamento che sfugge al controllo intenzionale dell’individuo , pur in assenza di una patologia conclamata.

In letteratura si trovano numerose evidenze sperimentali che legano il comportamento aggressivo a specifiche strutture cerebrali, in particolare a quelle regioni della corteccia frontale che mediano gli aspetti cognitivi ed emotivi del comportamento; e’inoltre stato evidenziato un stretto legame tra lobi frontali, personalità e comportamento; sembra confermato che le lesioni che interessano in particolare la regione orbito frontale influenzano un comportamento aggressivo che esprime con episodi di irritabilità, scoppi di rabbia o azioni impulsive anche in risposta a futili provocazioni (Damasio et al., 2000).

Musumeci (2012) spiega come oggi sia possibile esaminare il cervello in azione nell’individuo sano e riscontrare quindi il ruolo che determinate strutture cerebrali rivestono nello svolgimento fisiologico di una certa funzione mentale piuttosto che semplicemente osservare gli effetti su quella funzione mentale a seguito di una lesione più o meno grossolana del cervello. I risultati ottenuti non solo provano il ruolo della corteccia orbito frontale nella modulazione del comportamento aggressivo, ma chiariscono anche la funzione che tali regioni svolgono nel cervello sano, ovverosia una funzione di tipo inibitorio.

Adrian Rain (2006) ha dimostrare come negli assassini si osservi una diminuzione dell’attività metabolica nella corteccia prefrontale, ovvero la porzione frontale del cervello nei criminali mette in luce un’attività ridotta in risposta ad un determinato compito rispetto ai controlli sani.

Come riportato da Bianchi e colleghi (2009) le scienze forensi, in tale ambito, hanno distinto tra un tipo di violenza predatoria a sangue freddo da un lato e una impulsivà a sangue caldo dall’altro . E’ stato osservato che la diminuzione di attività significativa del 11% della materia grigia nelle regioni pre-frontali caratterizza in maniera importante gli assassini impulsivi, mentre quelli a sangue freddo hanno nelle regioni frontali un metabolismo pressoché analogo a quello dei soggetti di controllo (Umiltà e Matelli, 2007).

Come evidenzia Gullotta (2011) tenendo conto dei dati emersi, molti scienziati ritengono che la base biologica del comportamento criminale possa risiedere nella disconnessione tra corteccia frontale e amigdala, ovvero tra regioni deputate alla modulazione della risposta comportamentale e strutture implicate nella risposta a stimoli emotivi. Sembra infatti che l’integrità non solo della corteccia frontale, ma anche dell’amigdala sia indispensabile per l’inibizione degli impulsi aggressivi, e che i comportamenti criminali traggano origine da una frattura interna alla rete frontolimbica che regola la sfera emotiva .

La neuropsicologia studia i processi cognitivi e comportamentali correlandoli con i meccanismi anatomo-fisiologici a livello del sistema nervoso che ne sottendono il funzionamento (Umiltà, 1999).

Essa analizza nell’ uomo le alterazioni delle funzioni cognitive, causate da lesioni o disfunzioni focali o diffuse del sistema nervoso centrale, acquisite, congenite, geneticamente determinate, utilizzando il metodo scientifico ed ha aree di sovrapposizione con altre discipline come la neurologia, la neurofisiologia, la neurochimica la neuroanatomia, linguistica, l’intelligenza artificiale, condividendone il punto di vista del processamento dell’informazione della mente tipico della psicologia cognitiva (Denes et al., 1996).

Oggi la neuropsicologia non si occupa più solo di individuare la sede delle capacità cognitive e delle relative patologie, ma si dedica anche alla valutazione dell’ entità del danno e le conseguenti capacità di recupero del paziente ( Stracciari et al, 2010).

La neuropsicologia clinica è l’applicazione delle conoscenze della neuropsicologia alla diagnosi, gestione e riabilitazione dei pazienti con deficit cognitivi successivi a malattie o danni cerebrali di varia eziologia. Come in ogni ambito terapeutico la caratteristica distintiva è il setting che fa da cornice all’intervento e rappresenta anche una delle due importanti differenze con l’ambito forense oltre alla finalità dell’intervento (Stracciari et al., 2010).

Il contesto clinico è testimone di una richiesta volontaria di assistenza da parte del paziente, presupposto fondamentale affinchè la terapia possa avere esiti soddisfacenti; ciò esclude a priori in neuropsicologia clinica la possibilità di una simulazione dei sintomi

Il pensiero morale si definisce come un processo dove regole o standard multidimensionali sono usati per giudicare la condotta. Diverse circostanze possono avere infatti implicazioni morali a cui dare un peso più o meno grande in funzione dei propri standard o valori (Bandura, 1991). Il pensiero morale è dunque ciò che ci fornisce la possibilità di discriminare cosa è giusto e cosa no permettendoci di agire di conseguenza e su questa facoltà si basa anche il rispetto delle norme penali: solo un comportamento percepito come riprovevole, o comunque moralmente condannabile, porta il rispetto della legge che lo vieta (Picozza et al, 2011

L’empatia è la capacità di comprendere a pieno lo stato d’animo altrui, sia che si tratti di gioia che di dolore; empatia significa sentire dentro ed è una capacità che fa parte dell’esperienza umana ed animale .

Partendo da tali premesse, soprattutto in tema di Soggetti ad alto “rischio di contagio Sociale” prende corpo Il concetto di vulnerabilità genetica che sta ad indicare la presenza, nel corredo cromosomico dell’individuo,di uno o più geni che, in presenza di specifici stimoli, fungono da facilitatori per lo sviluppo di malattie o innesco di particolari comportamenti: essi sono un fattore di rischio dunque ma non una causa determinante.

La scienza medica identifica due particolari tipologie di geni legati alla trasmissione di particolari caratteri: i geni causativi e i geni di suscettibilità. I geni causativi determinano in modo automatico lo sviluppo della malattia, in quanto rappresentano il risultato della mutazione di un allele (Bianchi et al, 2009); in questo caso è possibile parlare di una determinazione genetica, dal momento che è sufficiente la presenza dell’alterazione perché l’individuo manifesti la patologia associata, senza che vi sia l’intervento di altri fattori esterni.I geni di suscettibilità sono invece una predisposizione genetica non determinante: anche in questo caso vi è una mutazione allelica, ma l’individuo portatore può non sviluppare la patologia associata, ma il rischio che ciò accada è più alto rispetto alla media della popolazione (Bianchi et al, 2009). Il gene di suscettibilità rende dunque l’individuo vulnerabile geneticamente, senza essere però una causa necessaria e sufficiente allo sviluppo di un disturbo o di un comportamento.

Avv.Lorenzo Papa

Consulente Tecnico del Giudice

Prof.Incaricato- Uni- Intern.Milano

Già Vice Procuratore- Novara

Già Giudice Minorile-Sez.Esperti Corte Appello Torino

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